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Nobel pace 2023, Zelensky o Navalny? Aumentano chance donne, indigeni e ambientalisti

Dall'Italia e dal MondoNobel pace 2023, Zelensky o Navalny? Aumentano chance donne, indigeni e ambientalisti

(Adnkronos) – Per il premio Nobel per la pace 2023 che verrà annunciato domani 6 ottobre, i bookmaker scommettano sul presidente ucraino Volodymyr Zelensky in prima battuta e sul dissidente russo Alexey Navalny. Ma tra i due favoriti potrebbe spuntarla invece qualche attivista per i diritti delle donne, nella difesa dell’ambiente o i popoli indigeni.  

Il Premio Nobel per la pace viene scelto da un comitato norvegese composto da cinque membri e selezionato dal parlamento di Stoccolma. Secondo il testamento di Alfred Nobel, viene conferito a qualcuno che ha lavorato per la “fraternità” tra le nazioni, riducendo gli eserciti e tenendo congressi di pace. Nel corso degli anni si è ampliato coinvolgendo vari tipi di sostenitori della pace, dalle organizzazioni internazionali come il Programma alimentare mondiale ai medici che lavorano a sostegno delle vittime di stupro. Le motivazioni politiche del premio vengono sempre attentamente esaminate per vedere che tipo di messaggio il comitato sta inviando al mondo.  

In attesa della scelta tra i 351 candidati, il cui elenco completo resta segreto, gli esperti esprimono crescenti perplessità infatti sul fatto che il comitato per il Nobel decida di assegnare il premio della pace al leader di un Paese che si trova attualmente in guerra.  

Anche le chance di Navalny sembrano in calo, dato che i dissidenti russi sono già stati premiati con il Nobel gli anni precedenti. Lo scorso anno, infatti, il Nobel per la pace è andato all’attivista per i diritti umani bielorusso Ales Bialiatski, all’associazione per i diritti umani russa Memorial e all’organizzazione per i diritti umani ucraina Centro per le libertà Civili. L’anno prima, il Nobel per la Pace è andato al direttore della Novaya Gazeta Dmitry Muratov, oltre che alla giornalista filippina Maria Ressa. 

Terzo favorito dai bookmaker è l’attivista uiguro in carcere Ilham Tohti, anche se questa scelta farebbe scontenta la Cina. Tra l’altro c’è un precedente: quando il dissidente detenuto Liu Xiaobo vinse il premio Nobel per la pace, Pechino congelò le relazioni diplomatiche con Oslo per sei anni. Nell’anno in cui cade il 75esimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, il Comitato per il Nobel potrebbe decidere di riconoscere il contributo degli attivisti alla pace, ha detto Henrik Urdal, direttore del Peace Research Institute di Oslo. “Penso che forse i candidati più probabili potrebbero essere i difensori dei diritti umani”, ha detto. 

Il ritorno al potere dei Talebani in Afghanistan e la nascita del movimento ‘Donna, vita, libertà’ in Iran dopo la morte di Mahsa Amini hanno attirato l’attenzione sulle donne che lottano per i diritti in quei paesi e altrove. A essere premiata potrebbe essere quindi Narges Mohammadi, attivista e giornalista iraniana di 51 anni che si batte per i diritti delle donne e contro la pena di morte. Attualmente è detenuta nel famigerato carcere di Evin a scontare una condanna a 10 anni con l’accusa di aver ”diffuso propaganda” contro il regime di Teheran. E proprio qui, nell’anniversario della morte di Mahsa, ha organizzato una protesta con altre detenute che, come lei, hanno bruciato i veli islamici. 

Altra papabile vincitrice è l’attivista afghana Mahbouba Seraj, che a differenza di altre femministe sue connazionali ha deciso di rimare a Kabul per portare avanti, nonostante il divieto da parte dei Talebani al potere dall’agosto del 2021, una campagna in difesa del diritto delle ragazze all’istruzione. ”Stiamo morendo! Quante volte devo urlarlo al mondo?”, è stato il suo grido disperato al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite nel settembre 2022. 

Il Comitato per il Nobel potrebbe anche voler puntare i riflettori sul cambiamento climatico, argomento affrontato l’ultima volta a Oslo nel 2007 quando è stato premiato il Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici e l’ex vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore. Perché anche il cambiamento climatico, in alcune realtà, genera conflitti. In questo contesto, i papabili potrebbero essere gli organizzatori del ​​movimento Fridays for Future, avviato dall’attivista svedese Greta Thunberg, ma anche il leader indigeno Raoni Metuktire, capo del popolo Kayapo in Brasile, che da decenni porta avanti una campagna per proteggere la foresta amazzonica. “Il coinvolgimento degli indigeni nella protezione dell’ambiente sarà fondamentale per le nostre prospettive di sopravvivenza all’attuale crisi”, ha affermato Dan Smith, direttore dello Stockholm International Peace Research Institute. 

Se il Comitato per il Nobel decidesse di concentrarsi sui diritti dei popoli indigeni, a essere premiati potrebbero essere Victoria Tauli-Corpuz, una Kankanaey Igorot del nord delle Filippine, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni dal 2014 al 2020. Nel 2018 l’allora presidente Rodrigo Duterte ha incluso Tauli-Corpuz in un elenco di presunti terroristi, una pratica intimidatoria secondo gli analisti che l’ha costretta a lasciare il Paese. Secondo il New York Times, è diventata la personificazione di ciò che denunciava, ”la criminalizzazione degli attivisti indigeni”.  

Possibile Nobel per la pace anche il leader indigeno ecuadoriano Juan Carlos Jintiach, del popolo Shuar, che per decenni ha difeso i diritti dei popoli della foresta amazzonica e lavorato contro il cambiamento climatico. E’ il segretario esecutivo della Global Alliance of Territorial Communities, una piattaforma di organizzazioni indigene delle foreste pluviali tropicali di 24 paesi in Asia, Africa e America Latina. 

Altri potenziali vincitori potrebbero essere infine la Corte internazionale di giustizia, per mettere l’accento sull’importanza della risoluzione dei conflitti. Ma anche l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati Unhcr, l’Unicef o il Comitato internazionale della Croce Rossa. Tra i candidati anche l’Human Rights Data Analysis Group, un’organizzazione no-profit con sede negli Stati Uniti che utilizza i dati per scoprire, quantificare e analizzare modelli di violenza di massa. I risultati dell’ong sono stati utilizzati in procedimenti legali, come ad esempio nel caso della Corte penale internazionale contro l’ex leader jugoslavo Slobodan Milosevic per il suo ruolo nelle guerre balcaniche degli anni ’90. 

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