“Mi affascina la concentrazione che occorre per il tiro lento e il confronto con me stessa, è uno sport solitario e mi rilassa. Quando sei in un poligono, c’è il freddo e il gelo sulla tua linea, il bersaglio a 10, 15 o 25 metri, sfidi te stessa e ti assicuro che mai e poi mai ho pensato, nemmeno quando ho sentito abbaiare un cane o un rumore sospetto nella casa di campagna in cui vivo, mai ho pensato che avrei potuto difendermi con un’arma”. Elisa (nome di fantasia), 50 anni, vive alle porte della Capitale, da 15 ha il porto d’armi e alla Dire spiega come sia nata questa sua passione e quanto poco, secondo lei, sia vera l’associazione automatica di chi va al poligono con una narrazione del soggetto pericoloso o aggressivo. Un sentimento comprensibilmente diffuso dopo i fatti del condominio di Fidene o la morte dell’avvocata 35enne Martina Scialdone. “Anzi bisogna essere ligi – assicura lei – più di tutti gli altri proprio perché si ha il porto d’armi”. Lei lo ha sempre vissuto cosi nella sua vita di mamma, lavoratrice e presidente di un’associazione che dà supporto alle donne con cancro al seno. Esperienza che la vita non le ha risparmiato. “Chi possiede un’arma denunciata ha un impegno morale. Anche da un controllo stradale emerge.
L’ITER PER OTTENERE IL PORTO D’ARMI
Inizia con un certificato di salute fisica e mentale rilasciato dal medico di base, poi si passa dal medico militare che fa una seconda valutazione e poi segue un corso di maneggio delle armi. Se si dà il nulla osta tutto va inviato in busta chiusa al commissariato e alla Questura, che fanno un’ulteriore valutazione e decidono. Ha cinque anni di validità e autorizza ad acquistare e detenere armi per uso sportivo che si possono chiaramente usare solo nel poligono. Chiaro che è un reato portarsela in giro. Poi c’è chi ha il porto d’armi per uso di difesa, ma sono categorie particolari- spiega Elisa- come chi trasporta valori o preziosi”.
LA DURATA DEL PORTO D’ARMI
La durata del porto d’armi dipende dalla tipologia. Per uso personale 1 anno, per quello sportivo e per uso venatorio con il decreto legislativo 104 del 2018, che ha recepito la direttiva europea del 2017, la durata è ormai di cinque anni. Ma se la persona che ha il porto d’armi sviluppa un disturbo psichiatrico o diventa depressa – come sembrerebbe essere il caso dell’ingegnere femminicida di Roma, secondo la sua difesa – c’è un controllo o una condivisione delle banche dati su chi detiene armi? “Se un paziente di questo tipo riferisce o i suoi familiari riferiscono che ha un porto d’armi ed è in cura presso una Asl, allora viene segnalato all’autorità giudiziaria. Se invece la persona è in cura presso il privato, questo non è tenuto a riferire”, dicono interpellati dalla Dire specialisti che lavorano nel pubblico e si occupano del tema. Tuttavia, sottolineano, “non bisogna nemmeno criminalizzare tutti gli psichiatrici come aggressivi”.
MANCANO BANCHE DATI PER LE AUTORITA’ SANITARIE
Eppure un buco sembra esserci nel momento in cui non esistono banche dati a disposizione immediata delle autorità sanitarie preposte. Una persona durante la decorrenza del porto d’armi può sprofondare in una depressione, iniziare ad assumere sostanze, incorrere in un diabete che dà scompenso o ancora sviluppare epilessia, ad esempio. “Ma il problema- dicono fonti interpellate dalla Dire che si occupano del rilascio del porto d’armi- è lo stesso della patente di guida: uno la prende e poi magari sviluppa un disturbo che può renderlo pericoloso”.
IL MEDICO DI FAMIGLIA FONDAMENTALE PER LA PREVENZIONE
Quale può essere l’unica forma di prevenzione? “Il punto di partenza fondamentale può essere il medico di famiglia che ha il polso della situazione: un soggetto che sta male in ambito psichico ed emotivo- sottolineano gli esperti preposti al rilascio- raramente va dallo specialista, a meno che non abbia la facoltà di pagarsi una visita privata, oppure ricorre al dottor Internet che invece fa i soliti danni”. Ma il medico di famiglia da chi lo sa del porto d’armi se non dallo stesso paziente o dai familiari?: “Non saprei come verificare se una persona abbia un porto d’armi a meno che non sia stato io a fare il suo primo certificato anamnestico. Se un paziente viene da me con uno stato d’ansia ho eticamente l’obbligo di chiedergli se abbia un’arma, sarebbe auspicale, ma il punto è che non ho una possibilità automatica di saperlo. C’è sicuramente un ‘buco’ nella prevenzione e le cose si potrebbero affinare meglio”, spiega alla Dire un medico di famiglia interpellato. “Se lo sapessi lo segnalerei alle autorità e non sarebbe violazione del segreto professionale, come lo facciamo con i servizi sociali in altri ambiti. Il punto difficile è stanare questa cosa, anche perchè tanti nemmeno vanno a chiedere aiuto per uno stato d’ansia”, o difficoltà personali simili. I medici certificatori, però, dal canto loro tengono a ribadire che “nell’iter di rilascio si seguono regole molto ferree: prendono il certificato anamnestico del medico di famiglia e ricontrollano a visita le persone, ma sarebbe auspicabile- ammettono in conclusione- una rete o un tempestivo scambio di banche date e informazioni a tutela delle persone”.
Le notizie del sito Dire sono utilizzabili e riproducibili, a condizione di citare espressamente la fonte Agenzia DIRE e l’indirizzo https://www.dire.it