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Gli anni di Marco D’Agostin e Marta Ciappina: un’opera da amare

AttualitàGli anni di Marco D'Agostin e Marta Ciappina: un'opera da amare

Lo spettacolo del danzatore e coreografo: delicatezza e sguardo
Reggio Emilia, 7 nov. (askanews) – Una ballerina a cui viene chiesto di parlare, di raccontare. Una tragedia privata che diventa narrazione pubblica. La scena di un teatro trasformata in luogo del crimine, con tanto di indizi, che però sono anche oggetti e momenti di una storia comune, condivisa al di qua e al di là del palco, mentre tutto intorno a noi scorre una colonna sonora che nel suo essere pop diventa anche commovente. La ballerina è Marta Ciappina, il cui talento si svela per intero nei momenti danzati, ma si arricchisce ulteriormente quando si ascolta la sua voce, quando si osservano i movimenti apparentemente normali, come alzare una cornetta del telefono o deporre a terra uno zaino Invicta giallo e blu (lo zaino che abbiamo avuto tutti, uno per uno). Lo spettacolo è di Marco D’Agostin, uno di quegli artisti che offrono una strada alla danza contemporanea, un modo di pensarsi, che ha la delicatezza per fingere che i suoi lavori non siano vere e proprie opere mondo, ma in realtà lo sono. Lo spettacolo è “Gli anni”, scritto proprio per Marta Ciappina, di cui, incidentalmente, si racconta la storia personale. Il teatro è l’Ariosto di Reggio Emilia, che ospita il Festival Aperto, di cui quella di D’Agostin è una delle opere in cartellone. La domanda di fondo potrebbe essere: “Come si racconta una vita” e i riferimenti culturali spaziano da Annie Ernaux, premio Nobel 2022 e autrice del romanzo intitolato proprio “Gli anni”, a Max Pezzali, che a sua volta con gli 883 aveva cantato questo inaccettabile fatto che il tempo passi, che il Grande Real e i suoi anni d’oro se ne siano andati, che oggi si possa ancora guardare il video di una bambina che fa il gioco di recitare la filastrocca “un limone, due limoni, tre limoni…” anche se quella luce, quella grana, e pure quella bambina in fondo, oggi non ci sono più. Perché la bambina è Marta, è la performer sul palco, che proprio dal conteggio dei limoni, si prende la scena e costruisce, parlando (e che voce!) e danzando (meravigliosamente) la storia di quelle immagini in verticale, per citare proprio l’esergo di Ernaux, che ci hanno portato “a sprofondare nella notte”. Per Marta Ciappina la notte coincide con l’assassino del padre, avvocato, ucciso con metodo mafioso nel cortile di casa. È una notte profonda dolorosa, in fondo infinita. Una notte nella quale le filastrocche possono essere tanto un disperato tentativo di salvarsi quanto un’insopportabile aggravante di malinconia. Qualche critico ha scritto che ne “Gli anni”, c’è un crimine e la vittima è la vita: forse è vero, ma quello che più mi preme sottolineare qui è la delicatezza pura con cui Marco D’Agostin ha riscritto la storia di questo crimine, la riduzione agli elementi sintetici dei gesti, di poche parole e di pochi oggetti che assumono in se stessi il peso di quelli anni e, in un certo senso, li liberano, li lasciano al loro essere. Perché tutte le vicende umane accadono sempre e soltanto in un modo solo. “È andata come è andata”, diceva uno dei protagonisti del film “Tenet”, ma è anche andata nel modo in cui D’Agostin e Ciappina lo hanno portato in scena, qui, davanti a noi, come se il teatro fosso tutto, e in fondo, nel momento del patto narrativo con il pubblico, lo è. Viene in mente, ripensando a come Marta occupa lo spazio del racconto (non solo quello scenico, ma anche quello metaforico e letterario), il modo in cui rielabora un lutto anche Lauren Hartke, la body artist immaginata da Don DeLillo in un suo piccolo romanzo che ha la stessa pulizia dello sguardo di D’Agostin, e la stessa serietà di fronte al fatto che non sono previste consolazioni, ma che il racconto, in tutte le sue forme, ha una potenza che, talvolta, supera quella della notte, almeno in parte. Come fanno le comete del Padiglione Italia alla Biennale d’arte, e, per giocare su questo parallelo con Gian Maria Tosatti, anche il lavoro di Marco D’Agostin affonda nella storia recente, nella sua cultura popolare, nei gesti generazionali, tanto che la playlist a singhiozzo che accompagna lo spettacolo ne diventa, proprio per la sua natura provvisoria e mai compiuta, un elemento chiave e, se vi piace, anche una possibile forma di interpretazione. Ma, come scriveva Susan Sontag, possiamo anche fare a meno dell’interpretazione e lasciare che l’arte, i corpi, gli oggetti, le luci, le parole, le musiche e i silenzi facciano la loro parte fino in fondo. Così, in piedi a occhi aperti, davanti a noi. (Leonardo Merlini) continua a leggere sul sito di riferimento

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