venerdì, 17 Maggio , 24

Diario di viaggio dall’Iraq, il paese in cui l’Isis dorme

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ERBIL (Iraq) – Sette giorni, quelli di un fitto diario di viaggio iniziato venerdì 26 aprile per andare a conoscere da vicino l’operazione italiana ‘Prima Parthica’ presente in Iraq da agosto 2014 nella coalizione internazionale contro lo Stato Islamico. La diga di Mosul, roccaforte delle tenebre negli anni dell’occupazione del Daesh (2014), è tornata all’Iraq nel 2017. Durante un volo di due ore, a bordo degli elicotteri NH90 della Task Force Griffon con i soldati dell’Esercito italiano, se ne ammira tutta la maestosità. Mosul oggi è simbolo di una vittoria militare che qui, nella terra che fu un tempo Mesopotamia, ha tutto uno strano sapore di glorie antiche, come quelle della Legio I Parthica creata da Settimio Severo nel 197 che vinse i Parti. E il Tigri, di un verde pastoso e nutriente, come secoli fa, taglia in due le sabbie.

Dall’alto, a bordo di un elicottero che si alza scudato di mitragliatrici, si vede il monastero di San Matteo, i cerchi concentrici e i raggi, come di una ruota di bicicletta, su cui si sviluppa Erbil, la cittadella con le rovine antiche di oltre 5mila anni fa e i restauri in corso; e le case intorno, immerse in un’aria farinosa e dorata. C’è voglia di futuro, si costruiscono nuovi palazzi, dai centri commerciali di mille colori sgargianti del centro alle casette piccole piene di tende della periferie.

Nel mercato di mille stoffe, oli profumati, dolci canditi e in tutta la città la vita scorre come sempre, piena di gioventù, tra ragazze velate e altre che esibiscono i loro lunghi capelli. La gente è tranquilla, dice chi sta qui in uniforme da mesi, nonostante la tensione internazionale della vicina guerra a Gaza la stringa in una morsa di droni e di massima allerta, che solo ogni tanto arriva a turbare il normale corso degli affari cittadini. I media locali riportano tutto, velocemente. L’atmosfera appare più sospesa che calma, perchè l’”Isis resiste” come ribadiscono i ministri curdi incontrati, Rebar Ahmed degli Interni e quello della Difesa, Shoresh Ismail Abdulla. La presenza degli italiani è per questo fortemente voluta: “L’Esercito italiano deve restare”, dicono tutti, per addestrare e tenere pronti i soldati curdi (i peshmerga) che hanno pagato in vite umane e migliaia di scomparsi la guerra all’Isis. Questo fanno i militari italiani nel Kurdistan iracheno e nuove attività addestrative inizieranno in una base tra qualche mese, come ha annunciato il comandante dell’operazione Colonnello Francesco Serafini che qui è arrivato poco dopo i drammatici fatti del 7 ottobre.

I cieli dell’Iraq da quel momento sono diventati teatro della guerra a Gaza, che come “un’ombra” è arrivata fin qui, allungandosi su tutto il Medio Oriente, ha detto il ministro degli Interni Rebar Ahmed.
La base di Camp Singara non dorme mai. L’allarme che rimbomba tra gli alloggi in cui vivono i militari scandisce il programma delle esercitazioni, i mezzi blindati partono di continuo per andare fuori, gli elicotteri trasportano personale e materiale, anche sanitario, i bunker sono indicati in ogni mappa, il gap (giubbetto antiproiettile) deve essere sempre al seguito, la scritta Emergency brilla fissa in una notte di forte pioggia. Il presidio medico di prima emergenza (Role 1) è aperto h24. Il responsabile, il medico tenente colonnello Marco Tribuzio, che in accademia ha unito due professioni: la mimetica e il camice bianco, racconta di giornate senza orari, sempre pronti.

Poi fuori dal grande sbarramento di sicurezza c’è il popolo curdo. Alcuni lavorano nella base, sono mediatori, cuochi, personale delle pulizie. Tanti hanno addosso e in casa i lutti e le ferite aperte dell’Isis. Come in ogni teatro operativo non manca la parte della cooperazione internazionale militare-civile (Cimic) per dare aiuto alla popolazione. Così un pomeriggio il diario di viaggio si ferma in una scuola dove 25 bambini, di tutte le età, orfani dell’Isis o lasciati da famiglie che non riescono a crescerli, ricevono materiale scolastico e abiti. Sono emozionati, alcune ragazzine sono più timide, altre indossano abiti elegantissimi e piccoli tacchi, i maschietti ridono tantissimo con qualche dente che manca e con occhi neri profondi. A coordinare tutto c’è il Capitano Teresa d’Amico: un collegamento tra l’associazione Bextewery (per questa donazione), altre che dall’Italia portano aiuti e la Difesa, come ha spiegato dopo la cerimonia di consegna, è garanzia di tutta l’operazione di aiuti umanitari. “Questo ci permette di avere un’analisi dell’effettivo bisogno della popolazione e ci garantisce che questo materiale giunga a destinazione”, ha spiegato Mariano Barbi, vicepresidente di ‘Live to Love’, l’associazione italiana coinvolta in quest’attività.

Il Kurdistan iracheno, cosi ha detto il ministro degli Interni alla stampa italiana in visita, vuole la pace e non si riconosce nella politica del Pkk, ma non sfugge l’ambivalenza del rapporto con l’Iraq: un legame più militare che politico. Si sente che il Kurdistan vuole sicurezza.
Dalle esercitazioni tattiche, agli incontri istituzionali nei palazzi brillanti di decorazioni, dove tutto è curato al dettaglio e non manca un profumato tè servito in bicchieri intarsiati, e poi ancora le colline di sabbia, l’aria acre del temporale caldo, la luna che s’affaccia sulle scale ferrose della base militare: il Kurdistan iracheno ha queste mille facce. Una donna soldato dice che “qui il tempo sembra non passare. Una giornata dura un mese” e non ha a che vedere con il lavoro che si fa, che è anzi tantissimo, ma con quella strana calma che si respira.
La morsa mortale dell’Isis ha ancora la sua mano scura sulla gente, che è tanto agguerrita quanto silenziosa.
Il pilota Andrea Piacitelli, comandante della Griffon, lascia dei diplomi a chi ha sorvolato queste terre per documentare cosa sta succedendo: qualcosa in più di un ricordo. Mentre il comandante Serafini di Prima Parthica torna a casa con tanti ricordi e lo stupore di un “inverno freddo, le piogge estreme che non ti aspetti in Iraq”. Quelle che seppelliscono anche le bellezze degli scavi che gli archeologi italiani vengono qui a salvare. Questa è pur sempre la Mesopotamia, terra di mezzo tra due fiumi e ora tra due mondi che si parlano in cielo con i droni, e a terra con la paura, nello spazio che non è di nessuno, né Iraq né Kurdistan, in cui torna la pericolosa minaccia del terrorismo. I curdi lo sanno: “L’Isis è sconfitto, ma non è morto“.

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