ROMA – Questa è la storia di cinque uomini e una donna che su una barca a remi si sono misurati con le gelide acque dell’Antartico dove soffiano i “cinquanta urlanti”, venti terribili che fanno tremare i marinai più temprati. Una sfida lanciata per battere dei record, creare consapevolezza sui rischi ambientali che incombono su questa delicata area e restituire dignità alla memoria di un uomo fuori dal comune, Henry ‘Chippy’ McNish, e del suo amato gatto.
L’EQUIPAGGIO DELLA SHACKLETON MISSION
La Shackleton Mission è partita il 4 gennaio scorso da Ushuaia all’estremità meridionale dell’Argentina, “la fine del mondo” nell’arcipelago della Terra del Fuoco, e ha attraversato l’Oceano Meridionale fino al continente australe. Giunta al termine della missione lo scorso 17 gennaio, ha stabilito sei Guinness World Record tra i quali quello di prima spedizione in barca a remi in Antartide. A guidare l’impresa il capitano Fiann Paul, islandese, esploratore e psicoanalista junghiano, vogatore oceanico, 33 Guinness World Record, senza contare i sei appena vinti, oltre al maggior numero di record raggiunti in una singola disciplina atletica, tra cui ben 14 ‘World’s First’, unico tra gli esploratori. Con lui hanno affrontato l’impresa lo scienziato Mike Matson (USA), costretto ad abbandonare prematuramente per problemi di salute, Jamie Douglas Hamilton (UK), Lisa Farthofer (Austria), rimasta ai remi nonostante si sia ferita nelle ultime fasi della navigazione, Stefan Ivanov (Bulgaria) e Brian Krauskopf (USA).
LA ROTTA
La ciurma di capitan Paul è partita a remi dalla Penisola Antartica per raggiungere l’Isola della Georgia del Sud attraverso uno dei tratti d’oceano più temuti del pianeta. Hanno ripercorso il viaggio compiuto su una lancia baleniera dall’esploratore britannico Ernest Shackleton e cinque membri dell’equipaggio dell’Endurance, il veliero a tre alberi con cui tentò senza successo la traversata del continente antartico finendo bloccato fra i ghiacci. Il viaggio alla ricerca di aiuto, considerato il più epico mai compiuto in una piccola barca a remi, lunga 7 metri e larga 2 metri, permise di salvare la vita a tutti i 28 membri della spedizione (56 contando anche la nave di supporto).
IL RICORDO DELL’ENDURANCE
Partita da Londra il 1º agosto 1914, a gennaio 1915 l’Endurance rimase incastrata nella banchisa, alla deriva e schiacciata dal ghiaccio. Dieci mesi dopo l’equipaggio dovette abbandonarla e vederla in breve distrutta dalla morsa della banchisa. Shackleton e i suoi crearono accampamenti di fortuna nei quali rimasero fino all’aprile 1916 in condizioni durissime. Lo stesso mese l’esploratore e cinque compagni salparono a bordo della scialuppa e dopo 15 giorni di navigazione in condizioni estreme arrivarono nella Georgia del Sud (a 870 miglia marine, circa 1.600 km). Toccata terra, 36 durissime ore dopo e superate 30 miglia di montagne e ghiacciai inesplorati, i sei raggiunsero una stazione baleniera. Da lì partì la missione di soccorso. Gli altri membri dell’equipaggio furono tratti in salvo alla fine di agosto 1916, al quarto tentativo, dopo 20 mesi sui ghiacci a rischio della vita.
L’ASPETTO AMBIENTALE DELLA MISSIONE
Anche oggi ad accompagnare la Shackleton Mission c’era una nave appoggio, che ha consentito di svolgere ricerche scientifiche per portare l’attenzione del mondo sull’impatto della presenza umana nell’ambiente un tempo incontaminato dell’Antartide. Se ne è occupato il primo ufficiale e ricercatore Matson, facendo ricorso alla tecnologia digitale per denunciare le minacce alla biodiversità marina nelle acque dell’Antartico, tra le altre cose tracciando in tempo reale lungo la rotta di pescherecci fuorilegge che depredano la biodiversità artica. Nient’altro sul fronte ambientale, purtroppo, perché il responsabile scientifico della missione ha dovuto concluderla prematuramente.
“Non abbiamo ripercorso l’intero viaggio della scialuppa di Shackleton ma abbiamo completato una remata nell’Oceano Australe”, spiega Fiann Paul, “il motivo principale è stata l’evacuazione del mio primo ufficiale, il dottor Mike Matson. Era l’ultima persona che mi aspettavo di perdere durante questa spedizione, quindi non avevo escogitato un piano B o un piano C che garantisse tale eventualità”. Imprevedibilmente Matson, anche lui vogatore estremo, “ha sofferto di un grave mal di mare, il che non era previsto”, spiega il capomissione, e “il mal di mare in ambienti polari provoca un effetto domino. Il risultato varia a seconda del grado della propria malattia, ma una volta che diventa intenso non si è in grado di digerire il cibo o assorbire calorie”. Dunque “ho deciso di fare una telefonata e spostarlo sulla nostra nave appoggio. Era la scelta più giusta. Mentre ci muovevamo, la temperatura è rimasta intorno a 1 grado e Mike non si sarebbe mai riscaldato stando con noi, il che era fondamentale per la sua salute”, conclude Fiann Paul.
Resta però l’intento ambientale della missione. “Abbiamo sostenuto la spedizione perché il suo obiettivo era quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla conservazione degli oceani e sulla protezione della natura in generale, tramite la designazione di nuove aree marine protette di almeno 4 milioni di km² nell’Oceano Antartico, facendola diventare la più grande area di protezione marina della storia”, spiegano Tenko Nikolov e Ivo Tsenov, CEO e fondatore di SiteGround, tra i principali hosting provider indipendenti, sponsor dell’impresa, “abbiamo abbracciato la Shackleton Mission perché è davvero vicina ai nostri valori”.
Durante la traversata a remi dell’Oceano Meridionale, i sei esploratori hanno effettuato turni di voga a gruppi di tre a intervalli di 90 minuti. In questo modo, ognuno di loro ha remato 12 ore al giorno per tutta la durata del viaggio, salvo i momenti in cui la navigazione è stata interrotta a causa di forti tempeste, la norma piuttosto che l’eccezione in quell’area oceanica. “Abbiamo combattuto raffiche di vento, onde enormi, freddo pungente e umidità. Ma allo stesso tempo, eravamo come in una fiaba di ghiaccio, circondati da iceberg e visitati da balene, pinguini, foche e albatros”, racconta Ivanov, il membro bulgaro dell’equipaggio, “ci siamo resi conto ancora una volta di quanto sia imperativo che tutti noi ci impegniamo a proteggere l’equilibrio ecologico del pianeta”.
LA STORIA DI HENRY MCNISH E DEL SUO GATTO