BOLOGNA – Fino a una decina di giorni prima di decidere di partire per Raja Ampat non riuscivo a ricordare bene il nome di questo arcipelago: invertivo le parole, le sillabe, ne inventavo di nuove. E non lo consideravo un buon auspicio per un viaggio. Poi il nome mi è entrato in testa, mi sono decisa ora che ci sono stata, di sicuro non me lo dimenticherò più. Raja Ampat, che significa “Quattro re”, in realtà di isole ne conta 1.500 di varie grandezze: ce ne sono addirittura di piccolissime, pochi metri quadri di sabbia bianca, che compaiono solo con la bassa marea. Si trovano nel territorio indonesiano, nella provincia della Papua Sud occidentale, subito sotto l’equatore. Sono state definite l’ultimo paradiso terrestre grazie alle acque cristalline che hanno tutte le sfumature del blu e del verde, una vegetazione ricchissima e una vita sott’acqua come pochi altri luoghi al mondo.
Si parla di più di 1.500 specie di pesci, più di 500 di coralli, oltre e circa 700 specie di molluschi. Premetto di non essere un’esperta, ma chi lo è più di me dice di non aver mai visto tanti pesci, coralli, strane e incredibili ‘piante’ sottomarine in acque anche basse. E poi le mante che nuotano in superficie, gli squali nutrice, i delfini e le tartarughe: se non ti avvicini troppo ti accompagnano eleganti mentre ti muovi a pelo d’acqua. Rapiti da tanta bellezza, coi miei compagni di viaggio abbiamo fatto talmente tanto snorkeling che alla fine eravamo convinti di avere mani e piedi palmati, oltre ad aver guadagnato un’abbronzatura da urlo, anche se solo nel ‘lato B’.
GIACARTA
Il viaggio è cominciato con una giornata a Giacarta, dato che ci siamo arrivati di mattina e l’ultimo volo, -quello che ci portava a Sorong- era la sera tardi. La capitale dell’Indonesia, per quel poco che abbiamo potuto vedere, è una grande, rumorosa e umidissima città, con moschee accanto alle chiese, mercati, palazzi fatiscenti e monumenti che celebrano l’indipendenza del paese dall’Olanda ottenuta dopo la Seconda guerra mondiale con conflitti e disordini durati circa quattro anni. Tra tutti, il luogo più affascinante che abbiamo visto è il caffè Batavia, un locale in stile coloniale su due piani, con vista sul centro storico e foto di attori famosi di ogni epoca. Un ottimo rifugio per sfuggire alla calura e poi al violento temporale che si è scatenato nel pomeriggio. Nei giorni successivi abbiamo scoperto infatti che parlare di stagione secca, a queste latitudini, è un po’ azzardato. Dopo il pit stop nella capitale, un altro volo, l’ennesimo, e un traghetto, per arrivare nella prima e più grande isola che abbiamo visitato, Waygeo. Qui, tra tutte le meraviglie che ci attendono c’è anche un letto, quasi un miraggio dopo due notti insonni, tra voli, scali e fuso orario.
LA VITA COI RITMI DELLA NATURA
Raja Ampat non è un luogo per viveurs, ci si alza con le prime luci dell’alba, si esce in barca e ci si tuffa già prima delle 8 di mattina, quando l’acqua è più calma e si possono osservare più pesci, si pranza a mezzogiorno e si cena alle 7 di sera. Per soggiornare ci sono alcuni resort, che puntano su appassionati di snorkeling e immersioni e non hanno intrattenimenti serali, oppure le homestay, che spesso sono composte da piccole palafitte sospese sull’acqua da due posti (stretti) con una più grande per consumare i pasti. Esistono anche alcune strutture ricettive di alti livelli, che noi ci siamo limitati quasi sempre ad osservare da lontano, non tanto per i prezzi, ma perché grazie alla nostra ‘capo-cordata’, Patrizia (che a Raja Ampat era già stata), abbiamo visitato luoghi meno ‘mainstream’ e siamo stati più a contatto con la vita vera degli abitanti. Così ci siamo adattati, tra le altre cose, a fare la ‘doccia a secchiate’, a usare i bagni in comune, alla ‘selvaggia’. Io già al secondo giorno non mi ricordavo più di aver portato dei sandali, camminavo costantemente infradito o scalza e mi vestivo con accozzaglie di colori come se fossi stata improvvisamente colpita da daltonismo. Un po’ per pigrizia, un po’ perché nelle palafitte la luce elettrica viene attivata solo poche ore, quando fa buio.
IL KALI BLUE RIVER E I TUFFI DEI BAMBINI
Le isole di Raja Ampat sono soprattutto mare, ma hanno tanto da vedere anche “sopra” l’acqua. A Waygeo, per esempio, partendo con delle lance che navigano veloci in una bellissima baia, e dopo una breve passeggiata, si può fare un tuffo nel Kali Blue River, che è proprio blu, sormontato dal alberi e liane. Qui incontriamo un gruppo di vivaci bambini in gita che fanno gare di tuffi e ci chiedono di fare foto assieme. I selfie con gli stranieri, infatti, qui con in altri paesi del mondo pare siano un uso abbastanza diffuso.
IL TREKKING ALL’ALBA E L’UCCELLO DEL PARADISO
L’uccello del paradiso è uno degli animali rari che si possono osservare in quest’area del pianeta, ma per poterlo vedere bisogna raggiungere aree isolate al mattino presto, quando i maschi della specie, che hanno code lunghe e arricciate, si esibiscono nel rituale di pre-accoppiamento. Quindi una bella sveglia alle 4 con trekking al buio per arrivare alla zona di osservazione non ce la leva nessuno. Ma il gioco vale la candela, perché nonostante il nostro pessimismo (e un ragno che mi ha lasciato in ricordo una dozzina di morsi) ne appare prima uno, poi due, poi tanti, che come in una danza svolazzano da un albero a un altro per farsi notare dalle femmine cantando richiami a squarciagola. Quando torniamo indietro abbiamo ancora tutta la giornata davanti e ne approfittiamo per un’escursione in barca a Mion Kon, la prima di una serie infinita di isole paradisiache con acqua turchese e alberi che arrivano fin sulla spiaggia.
I TREKKING SUI FARAGLIONI E I PANORAMI MOZZAFIATO
Un altro incanto di Raja Ampat sono i faraglioni di rocce vulcaniche dai quali continua a leggere sul sito di riferimento